A mio avviso, solo l’edificio drammatico può restituire un’idea del teatro. […] Che sia in Grecia, in Italia o in Francia, a Epidauro, a Vicenza, a Parma, a Roma, ad Arles, a Orange o a Nîmes, che siano anfiteatri o teatri. Che siano antichi o moderni, è nell’edificio deserto in cui si entra d’improvviso, dove ci si lascia penetrare dal vuoto strano e dal silenzio del luogo, che possiamo avvicinarci a un’idea autentica del teatro. In questo stato in cui la sensazione consegna l’intero essere alla sua mentalità primitiva. Sono il cuore e i polmoni, gli occhi e le orecchie la sorgente di questa sensazione, di questa impressione tutta fisica.
(Louis Jouvet, Notes sur l’édifice dramatique, in L. Jouvet, Architecture et dramaturgie, Bibliothèque d’esthétique, Flammarion, Paris 1959)
Fu nel teatro di Orange. […] Mi trovai in mezzo a tronchi di colonne giacenti e piccole altee […] mi voltai. Oh, ero del tutto impreparato. Si stava recitando. Un immenso, un sovrumano dramma era in corso, il dramma di quel possente muro di scena, la cui struttura verticale si faceva innanzi tripla, tonante di grandezza, quasi annientante e d’improvviso piena di misura nella dismisura. Cedetti di sgomenta felicità. Quel maestoso, altissimo, con le sue ombre ordinate come in una faccia, con il buio raccolto nella bocca del suo centro, limitato lassù dall’acconciatura a riccioli uguali del cornicione: quello era la forte, l’antica maschera che simula tutto, dietro la quale il mondo raccolse perché vi fosse un viso. Là, in quel grande emiciclo, regnava un’esistenza in attesa, vuota, succhiante: tutto l’accadere era fuori: dèi e destino.
(Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduzione, introduzione e note di Furio Jesi, Garzanti, Milano 2014)
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